Poco meno di 9mila. È questo il numero degli host – così Airbnb definisce chi affitta immobili sulla piattaforma – interessati dalla stretta sugli affitti brevi, proposta dal ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini. La norma è stata inserita nella bozza di disegno di legge sul Turismo che, dopo gli ultimi passaggi tecnici, verrà presentata al Consiglio dei ministri, per poi approdare in Parlamento: chi affitterà, sempre per meno di 30 giorni (quindi locazioni turistiche), più di tre unità immobiliari sarà considerato come un imprenditore, anche se si avvale di intermediari oppure di portali telematici specializzati, come Airbnb, Booking oppure Homaway. «È apprezzabile – afferma Giacomo Trovato, country manager di Airbnb Italia – che il ministro voglia operare nel contesto di una riforma organica e partecipata come quello del disegno di legge sul turismo, anziché intervenire con provvedimenti spot». Per quantificare l’eventuale impatto di questa norma, Il Sole 24 Ore si è affidato a OnData, associazione impegnata nella diffusione della cultura degli open data, che raccoglie periodicamente i dati relativi agli immobili presenti su Airbnb. A fine gennaio sul portale erano caricate poco meno di 380mila soluzioni affittabili. Ora, concentrandosi sugli immobili interamente affittabili (le stanze, infatti, sembrano escluse), il numero scende a circa 296mila unità. Prendendo in considerazione i codici identificativi degli host, si scopre che ce ne sono 8.880 che gestiscono almeno quattro appartamenti. È a loro che il ministro Franceschini pensa quando parla della necessità di un giro di vite. «Il governo – ha dichiarato – sta lavorando a una norma che distingue chi affitta nello spirito originario di Airbnb, cioè solo il proprio appartamento, e chi invece maschera una normale attività d’impresa». Entrando più nello specifico, ci sono tre host che affittano oltre mille appartamenti (molto probabilmente agenzie o gestori professionali che utilizzano la piattaforma per raggiungere un target più ampio), altri quattro che ne gestiscono tra i 500 e i mille, 23 che ne hanno in portafoglio più di 200. Va detto, comunque, che nel database degli annunci Airbnb estratto da OnData i proprietari sono identificati a partire da un codice numerico che il portale assegna loro. Quello, per capirsi, che compare in fondo all’url se si clicca sul profilo di un host. Se poi una stessa famiglia ha più di un appartamento da affittare e apre più account per affittarli, questo i dati non permettono di capirlo. Se il testo che verrà presentato dai Beni culturali dovesse passare il vaglio del Consiglio dei ministri e, poi, del Parlamento, i più colpiti saranno senza dubbio gli oltre 6mila host che gestiscono tra i 4 ed i 6 appartamenti sulla piattaforma. Per loro scatterà la definizione di attività imprenditoriale, come da articolo 2082 del Codice civile, con tutti suoi effetti: necessaria apertura di una partita Iva e iscrizione al Registro delle imprese, dichiarazione del reddito d’impresa (non più fondiario) e conseguente tassazione fuori dalla cedolare secca. Le reazioni delle associazioni di categoria non si fanno attendere. «Le anticipazioni sulle intenzioni del Governo – afferma Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia – destano forti perplessità, sia sul piano dell’efficacia delle disposizioni ipotizzate, sia su quello della loro costituzionalità». Su questo punto le associazioni rilanciano il progetto di una comunicazione unica, a carico degli host, che consentirebbe di monitorare i flussi, snellendo gli adempimenti necessari. «Per definire l’attività imprenditoriale – aggiunge il notaio Fabio Diaferia, presidente della Prolocatur – il Codice civile parla di “professionalità” e “organizzazione”. Questi due requisiti non possono essere rappresentanti solo dal numero di appartamenti affittati, magari anche solo per poche settimane l’anno. Conta il numero di contratti stipulati oppure l’eventuale gestione dell’attività tramite realtà specializzate».